Quello che oggi potrebbe sembrare una sorta di aperitivo, nella tradizione gastronomica piemontese veniva definita merenda sinoira. Si tratta di un piccolo pasto (freddo) frugale ma sostanzioso fatto alcune ore prima di cena e che funge quasi da cena. "Sinoira" infatti deriva da "sin-a" che in dialetto piemontese significa proprio: cena.
Diffusa, un tempo, soprattutto fra le famiglie contadine, si svolgeva intorno alle ore 17 e aveva lo scopo di dare energia dopo i faticosi lavori del primo pomeriggio e prima di affrontare quelli serali legati alla terra e alla stalla che si protraevano sino al calar del buio. La cena, verso le 21, di conseguenza, era piuttosto leggera: pane e latte o minestra di verdura o panata ed eventualmente un pezzo di formaggio.
La definizione di merenda che appare sul vocabolario-dizionario piemontese-italiano Sant'Albino del 1859: "Il mangiare fra il desinare e la cena - San Giusep a porta la
marenda ant el fassolet, San Michel a porta la marenda an ciel - L'usanza fra i contadini, concede la merenda soltanto da San Giuseppe a fine settembre (San Michele)”.
La "marenda ant el fassolet" veniva portata nel campo in un tovagliolo e di conseguenza consumata all'aperto. Per dirla nel linguaggio moderno, era un "break" (a base di pane, formaggio e salumi) per corroborarsi, e si svolgeva solamente nel periodo di massimo lavoro (dalla primavera all'inizio dell'autunno) che coincideva anche al periodo in cui le ore di luce erano maggiori e di conseguenza le giornate lavorative più lunghe.
Più ricca e più varia era invece la "marenda sinoira" consumata in casa al termine di un lavoro importante a cui, oltre ai componenti della famiglia offerente, partecipavano tutte le persone che avevano contribuito alla conclusione del lavoro. Quando bisognava svolgere lavori particolarmente difficili o per i quali erano necessarie molte persone (costruzione di un terrazzamento, manutenzione di un canale irriguo o di una strada di campagna danneggiata da un acquazzone, trebbiatura del grano o della segale, trasporto del fieno in cascina...), infatti, le diverse famiglie si aiutavano a vicenda.
In questi casi, la "marenda" comprendeva almeno cinque o sei “portate” aventi caratteristiche leggermente diverse secondo le zone della Provincia, la stagione e le abitudini famigliari: Toma fresca, stagionata e del “lait brusc”; “cevrin” (caprini); “brus”; tomini freschi o “pasà” (essiccati, passati nell’aceto e poi messi sott’olio); tomini freschi insaporiti con aglio e pepe ed impastati con poca panna o latte oppure conditi con olio e aceto con l’eventuale aggiunta di spicchi di pomodoro; salumi e insaccati tipici (coppa di maiale, lardo, ventresca ossia pancetta, salame “della rosa”, salame di “turgia” o di “giora”, salame di patate, “salame di trippa”, mocetta, “mustardela”, “bondiola”); antipasto piemontese di verdure con aggiunta di tonno o uova sode; funghi sott’olio o sott’aceto; verdure sott’aceto; verdure crude in pinzimonio; cicoria od altra insalata con uova sode accompagnata da patate lesse o da fette di polenta arrostita avanzata a pranzo; insalata verde con pomodori o mista; insalata di fagiolini e pomodori; “miasse” con “salignun” (in Alto Canavese), “fritun ‘d patate” (senza uova) denominato “pilot“ in Alta Val Chisone e Germanasca; gofri (sempre in queste ultime due Valli).
Talvolta si concludeva con fragole o pesche al vino e per i bambini poteva comparire il pan perdu, una fetta di pane casereccio raffermo leggermente ammorbidita nel latte, passata nell’uovo sbattuto, rosolata nel burro e poi spolverizzata di zucchero.
Ma le marende sinoire, d’estate, erano anche un’usanza dei borghesi e dei nobili che
possedevano ville in campagna. A tal proposito, lo scrittore canavesano Gaetano Di Giovanni autore nel 1889 del libro “Usi, credenze e pregiudizi” scriveva: “Il popolo va (a fare merenda) nelle canove, nelle osterie, nelle vie campestri adombrate da olmi e da castagni; i Signori, massime nell’està, s’invitano vicendevolmente nelle loro ville ed ivi fanno delle merende, che riescono sontuosi sissizi”.
Dopo l’ultimo dopoguerra, con il migliorare delle condizioni economiche, la marenda sinoira, nella bella stagione, divenne un’usanza diffusa fra tutta la popolazione; pertanto, da pasto necessario per rifocillarsi, si trasformò in un momento da passare allegramente in compagnia. Nelle merende hanno così fatto il loro ingresso anche i tomini al verde; le trote (o tinche o carpe o anguille) in carpione; le acciughe al verde o in salsa rossa, le zucchine in carpione; l’insalata di gallina o di bollito; le frittate di ogni genere, ma soprattutto quelle di erbe spontanee, di erbette, di zucchine con l’Erba di San Pietro, di fiori di zucca, di cipolle, di patate e con la Toma.
Talvolta potevano anche comparire: lingua in salsa; uova sode o in camicia in salsa, prosciutto in gelatina, peperoni arrostiti o scottati in acqua e aceto con sopra un’acciuga. Luogo d’incontro divennero soprattutto i chioschi situati in luoghi
ombreggiati vicino ai fiumi e le trattorie di campagna con un bel pergolato. Ogni località aveva il “suo” locale specializzato per questo o per quel piatto. Le famiglie e i gruppi di amici partivano, soprattutto dalla città e dai grossi centri abitati, per andare a mangiare i “tomini del Talucco” da “Ginota” piuttosto che i “ciavrin di Coazze” da “Carlin” o le “trote dell’Orco” da “Pinot”.